Mille Anni di Storia
Nel 986 la Marca di Toscana e quella di Spoleto erano governate dal marchese Ugo, seguace e fedele di Ottone III, il quale rivestiva un ruolo importante nell'azione imperiale contro i grandi feudatari laici.
Il marchese Ugo, fautore della riforma ecclesiastica, aiutò Romualdo, divenuto poi Santo, a fondare numerosi monasteri.
Proprio nel 986 San Romualdo, dal monastero delle Benedettine-Camaldolesi di Bagno di Romagna, andò per un breve periodo nel romitorio di Sant’Alberico e fondó nelle immediate vicinanze un "ospizio" del suo Ordine, che divenne poi un importante Monastero denominato "Monasterim Sancti Johannis Baptistae inter ambas Paras".
Il primo documento che lo ricorda è andato perduto, ma viene citato su una carta del 1125: è il privilegio di esenzione dall' autorità vescovile che fu concesso dal papa Gregorio VII nel 1076.
Questo aiuta a comprendere che il monastero fu fondato molti anni prima: questi privilegi venivano concessi solamente quando il monastero raggiungeva una certa notorietà, un processo che richiedeva solitamente parecchi decenni.
La celebre Abbazia di Cluny, per esempio, fu fondata nel 910 e solo nel 998 ottenne da papa Gregorio V il privilegio della propria autonomia; Camaldoli dopo sessant'anni dalla formazione del 1072 da Alessandro II; Fonte Avellana, fondata nell'885 ne beneficia da Silvestro II nel 1003.
La presenza di Gebizo, priore in ambas paras e vescovo di Cesena, facilitò al monastero la donazione del privilegio papale. Lo troviamo fondatore nel 1083 del monastero consacrato ai Santi Egidio e Martino di Campriano, diocesi di Arezzo; il suo nome si legge anche in carte di donazioni degli anni 1095,1097,1125.
Non è nota con certezza l’identità di Gebizo. forse possiamo individuarlo come discepolo di S. Pier Damiano oppure come un monaco di Fonte Avellana.
L'eremo e il monastero sorti a breve distanza di tempo ci portano ad esperienze già note a S. Romualdo ed a S. Pier Damiano. All' infuori di questa tradizione non abbiamo in Italia, almeno in questo periodo, eremi e monasteri affiancati.
Sant’Alberico è il successore di S. Romualdo, e le sue origini risalirebbero a Fonte Avellana al seguito di Pier Damiano, che potrebbe aver abitato l'eremo a lui dedicato nel biennio 1048-49.
I documenti a noi pervenuti portano il termine "priore" per indicare il superiore del monastero, particolarità propria di Fonte Avellana almeno dal priorato di S. Pier Damiano, 1043-1072, fino al 1325 anno della sua trasformazione in abbazia.
Monastero ed Eremo
Non è noto quali fossero le precise relazioni tra il monastero e l'eremo di Sant' Alberico, tuttavia la loro presenza così vicina fa pensare ad uno scambio di reciproci aiuti.
Il monastero accoglieva eremiti infermi, amministrava i beni comuni, riceveva i pellegrini che salivano all'eremo, a sua volta l'eremo veniva ad offrire ai monaci una temporanea dimora per riflessioni spirituali oppure per il passaggio alla vita eremitica.
Camaldoli, ad esempio, l'eremo tipico della riforma romualdina dalle origini ai nostri giorni, presenta questa duttile esperienza.
L'eremo di Sant' Alberico durò molto poco e si estinse per mancanza di vocazione, né poteva sperare dal monastero nuovi rinforzi: il monastero godeva di una posizione migliore, con un regime indubbiamente austero (Convalidato anche da Ubaldo) ma non radicale e primitivo come quello dell'eremo, reso insalubre dal freddo, dall'eccessiva umidita e dalla scarsezza di luce.
Certo è che da un certo periodo il monastero ha in dominio l'eremo con i suoi possedimenti e si presenta con un altro nome: "Cella santi Alberici inter ambas paras".
Il primo documento che ci presenta questa trasformazione è offerto da una carta del 1228, l'eremo era però già scomparso da diverso tempo.
Sin dalle sue origini il monastero ricevette numerose donazioni, soprattutto dai nobili del luogo.
Secondo un atto del 1090 al monaco Gebizone priore della Cella, furono donati innumerevoli possedimenti siti nel territorio della Pieve in Messa di Pennabilli, da un certo sig. Corbo e dai fratelli Ugo, Ramberto e Guido figli del fu Guido.
Nell'anno 1083, i nobili Ubertini di Valenzano donarono al monastero la loro chiesa di S. Egidio, sita in Campriano, diocesi di Arezzo, con l'autorità concessa al priore della Cella di eleggere l'abate.
Nel 1125 Pietro vescovo del Montefeltro donò al monastero vari possedimenti.
Nel 1197 i nobili Ranieri, Rinaldo e Guido, donarono beni e terreni posti nella valle di S. Marino, mentre nel 1198 un nobile sarsinate donò al monastero tutte "le selve e le praterie che possedeva da Viezza a Montegiusto, alla serra, a Valbona fino a Ocri"
L'autorità goduta dal monastero è confermata da una lettera che papa Bonifacio VIII scrisse al priore della Cella nel 1298 affinchè sollecitasse il priore di chiesa Camaldoli a prendere possesso della e pieve di Bagno di Romagna.
Del resto i possedimenti del monastero si estendevano su un vasto circondario che fu descritto per intero solo nell’ottobre del 1350 nel rogito stipulato alla Cella, dal notaio ser Giovanni Amoretto da Calbana, tra Uguccione (del fu fu Francesco) della Faggiola e il ricevente don Pace priore:
"In podio Fumaiolis et Rizaverae..." che tradotto significa: "le rocce vive sono con l'altipiano del Fumaiolo e Rizavera, (da qui) si gettano sul podio dell'eremo di S.Alberico e fini innalzano sul monte Aguglione (Aquilone), entrano (quindi) nella fonte Pozia gettananosi attraverso la sega, nel monte Veclo (Vecchio), quindi nei Canapagioli, percorrono poi la Roce, il Custellione (Castiglione) e la para di Gorgotondo e attraverso la para di ponte Veclo e entrano nel fosso del podio di Viezza e per la rupe del monte Ranieri si inoltrano nella Croce si gettano nel fosso del Galviano, quindi nella para del Mercatale e vanno attraverso la pare del fosso del Canale e si inoltrano infine attraverso la terra fino fino al monte Fumaiolo.”
L’8 gennaio del 1368 il priore della Cella don Buono di Francesco da Imola riconferma per 50 anni a fra Leonardo di Francesco, precettore del tempio di s, Michele di Rimini, la chiesa di San Simone di Budrio, che il monastero della Cella aveva ricevuto dall'arcivescovo di Ravenna.
E' curioso il fatto che entrambe le chiese, S. Michele di Rimini e S.Simone di Budrio, appartennero all'Ordine dei Templari sorto nel 1119 e sostituito nel 1130 da un Ordine Militare che rappresentò l'unica difesa del Cristianesimo contro l'Islam.
E’ noto che la Valle della Cella di Sant’Alberico, al cui centro sorge il Monastero, rivesta un ruolo importante nella storia religiosa: fu luogo di passaggio per San Francesco di Assisi, che ne percorse la strada verso l’eremo per poi dirigersi verso il monte della Verna, ricevuto in dono dal conte Orlando Cattani di San Leo.
Il monastero conservò la sua autonomia fino al secolo XIV quando venne inserito nell'Ordine Camaldolese e più tardi svuotato di monaci e convertito in fattoria sotto il dominio di Camaldoli.
Un documento del 1392 lo vuole unito sin dal 1305 all'abbazia Camaldolese di Santa Maria del Trivio, diocesi di Sarsina, detta carta riporta tuttavia il luogo "eremus sancti Alberici" e quindi non sappiamo con esattezza se si tratta solo dell'eremo o anche del monastero.
La notizia certa relativa al passaggio del monastero di S.Giovanni all' Ordine Camaldolese risale al 1360; in questa occasione vennero iniziate trattative con i monasteri che avevano chiesto l'unione con i Camaldolesi. Tra questi è indicato un monastero chiamato del monte Pario che gli annalisti ipotizzarono fosse S. Giovanni inter ambas paras, non trovandone un altro simile a quel nome.
Divenuto possesso di Camaldoli i terreni vennero a formare una fattoria diretta dal capitolo del Sacro Eremo di Camaldoli, mentre la Cella di Sant’Alberico conservò carattere di santuario sotto la custodia di due monaci camaldolesi.
Piu tardi vi risiedette un laico, vestito dell'abito bianco, che in seguito fu sostituito da un oblato, ovvero da un religioso che, pur senza conseguire i voti monastici, si impegnava a seguirne la Regola. Questi seguitò a risiedervi fino alla soppressione napoleonica degli Ordini religiosi, avvenuta nel 1810.
Nel corso dei secoli i monaci camaldolesi costruirono ottimi impianti di segheria ad acqua, data l'ubicazione del monastero su di una conca circondata da selve centenarie e soprattutto da sorgenti e corsi d'acqua che scorreva sempre copiosa.
Il legname tagliato e lavorato dai frati veniva poi venduto, per essere utilizzato come materiale per costruzioni. Da non dimenticare che gli abeti della Cella, spediti dai frati via Tevere, sono parte dei travi che sorreggono il tetto della basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma.
Nonostante i secoli trascorsi è possibile ancora oggi vedere ciò che rimane della Vecchia segheria, che si trova a circa 200 mt. dall'abitazione dei monaci, immersa nel bosco lungo il "Fosso della Cella".
Le filze, attualmente depositate all'Archivio di Stato di Firenze, riportano non solo la descrizione della vecchia segheria ma di tutti i beni e pertinenze che facevano parte di detto monastero.
Sono notevoli i disegni, eseguiti ormai da secoli dagli stessi monaci, che ben illustrano il monastero ed il territorio circostante.
Le mappe vennero eseguite in seguito ad una disputa che i monaci ebbero con gli uomini del Comune delle Balze. L'illustrazione riporta una porzione limitata del territorio di pertinenza della Cella, si tratta in particolare del confine messo in discussione posto tra il comune di Balze e i possedimenti dei monaci, quest'ultimi identificavano detto confine con "Le Pozzere" mentre gli uomini delle Balze facevano riferimento ad una certa "Pozza".
Furono necessarie più sentenze, seguite a più riprese, negli anni 1537-1549-1569, per potere arrivare ad una nuova confinazione che rispecchiò quanto dichiarato dai monaci.
La vita del monastero, quindi, non fu sempre tranquilla. Del resto i comuni medievali, nati dalla volontà di autonomia da parte della piccola nobiltà locale contro la grande nobiltà, quasi sempre protetta dai vescovi, non godevano di un clima politico molto stabile ed erano soggetti a continue rivendicazioni.
Fu necessario intatti sostituire i consoli, troppo spesso esponenti delle fazioni locali, con il "podestà" scelto fuori città che garantiva assieme ai suoi collaboratori, (consiglieri giuridici, cancellieri, scrivani, uomini armati) una neutrale supervisione. Il monastero della Cella subì quindi le conseguenze di tale situazione.
Nel 1810 nonostante la soppressione degli ordini religiosi voluta da Napoleone, il monastero della Cella continuò ad esistere: sembra che nessuno lo volesse acquistare!
Dopo la caduta di Napoleone, il Monastero andò al governo toscano, che lo ridonò ai camaldolesi.
Questi ultimi tuttavia ritennero opportuno concentrare le proprie forze nell'eremo di Camaldoli e quindi abbandonarono il monastero, lasciando sul posto un camerlengo, fino a completa vendita dell'intera proprietà.
Ciò avvenne il 5 gennaio 1822, sotto il pontificato di Pio VII ed il governo del Granduca Ferdinando III.
L’intero patrimonio del monastero, ivi compreso l'eremo, fu venduto per £ 6.000 quando era stato valutato da esperti almeno dieci volte tanto.
La parrocchia continuò ad esistere fino al 1833 quando venne definitivamente annessa all’Oratorio di San Rocco alla Capanna.
Nonostante le trasformazioni subite nel corso dei secoli, derivate soprattutto da diverse destinazioni d'uso che si sono susseguite nei secoli, il Monastero ha conservato alcuni elementi architettonici che gli appartennero probabilmente sin dalla sua nascita.
Sulla facciata prospiciente la strada bianca che dal Monastero conduce all’Eremo si trova l’ingresso, coperto da una volta a botte dalla struttura completamente originale, grazie alla robusta struttura muraria.
L’accesso presenta un coronamento in conci di arenaria di dimensioni imponenti, ai quali è incardinato il portone di legno, dalle dimensioni imponenti.
L’impianto dell’edificio è piuttosto regolare e si è sviluppato inizialmente nella zona della chiesa, al cui nucleo si andò ad aggiungere il corpo oggi centrale della struttura. Il piccolo chiostro interno apportava luce ai vani sviluppati su 2 piani, divenuti 3 nel corso dei secoli.
Il diverso stato di conservazione dei materiali ed i piccoli disegni conservati all’Archivio di Stato di Firenze indicano chiaramente che nel corso dei secoli furono aggiunte ulteriori strutture, come il prolungamento laterale che ospitava capanni e stalle.
All'inizio del Novecento l'ex monastero apparteneva a diverse famiglie della zona, che vivevano di agricoltura e pastorizia. Secondo testimonianze dirette, alla metà del ‘900 qui vi abitavano circa 80 persone, e durante questo periodo si rese necessario istituire all'interno dell'edificio stesso una scuola.
Con l’allontanamento progressivo dalle montagne e il trasferimento dei più giovani nei paesi vicini e nelle città più lontane, il piccolo borgo cadde nel tempo in uno stato di completo abbandono.
Divenuto infine di proprietà di una famiglia di Rimini, i Signori Ricci, il Monastero è tornato agli antichi splendori attraverso un’opera di attento recupero architettonico, sotto la supervisione delle Belle Arti di Ravenna.
Oggi questo percorso, durato quasi 20 anni, si conclude finalmente con la nuova vita del Monastero, che riprende ad ospitare chi desidera ritrovare gli stessi valori degli antichi monaci: serenità, pace, benessere, declinati naturalmente nelle nuove forme di nostri giorni, ma senza dimenticare una Storia suggestiva e per grandi tratti ancora avvolta nel mistero.